Il profitto non è più il Dio unico del mercato?

La regola aurea del mercato che indicava alle società l’imperativo del massimo profitto a beneficio degli azionisti, che da più parti si è ritenuta responsabile dell’aumento delle diseguaglianze, è stata, finalmente, messa in discussione.

E non da parte di associazioni operaie o in paesi governati dai “comunisti” ma proprio là dove era stata coniata negli anni ’70 dal premio Nobel per l’economia Milton Friedman, gli Stati Uniti d’America.

Il ripensamento proviene, nientemeno, dagli amministratori delegati di aziende (181 secondo alcune fonti di stampa, 200 secondo altre) facenti parte del Business Roundtable (associazione con sede in Washington, DC che riunisce gli amministratori delegati (CEO) delle principali società statunitensi, tra gli altri quelli di Amazon, Apple, Bank of America, Ford, Goldman Sachs, Ibm, Morgan Stanley, ecc.), i quali hanno sottoscritto un “manifesto” in cui si dichiara che l’ambiente ed il benessere dei lavoratori devono venire prima del profitto e ci si impegna a investire nei loro dipendenti, proteggere l’ambiente, comportarsi correttamente ed eticamente con i fornitori, concentrarsi sulla qualità dei prodotti e dei servizi offerti e creare valore di lungo termine per gli azionisti [La sintesi è di Morning FUTURE].

L’iniziativa ha prodotto reazioni contrastanti. A chi ritiene che “il manifesto della Business Roundtable è destinato a scuotere le fondamenta della società” se non addirittura “a cambiare le sorti del pianeta” si oppone chi pensa che dietro questa iniziativa, ci sia “l’idea, in sé assai pericolosa, che le aziende e gli operatori economici possano autogovernarsi, perché in fondo «conviene» e che quindi non ci sia bisogno di scomode autorità statali, leggi, sanzioni, che, in fondo, frenano lo sviluppo economico e l’arricchimento“.

Gli autori del manifesto sostengono che si tratta di veri impegni già concretizzatisi in misure effettive come aumento di salari, progetti di riforestazione e di tutela dei mari, ecc.

Nell’elenco manca un progetto per la rinuncia a cronometrare il tempo dedicato dai lavoratori al soddisfacimento delle più elementari esigenze naturali, progetto più alla portata anche per grandi colossi dell’industria, del commercio e della finanza, rispetto a quelli planetari riguardanti foreste e mari. E questa assenza proietta un’ombra di sospetto su tutta l’operazione, se non dipende da difetto di informazione.

Comunque resta il riconoscimento, che sarà difficile cancellare, di un errore protrattosi per quasi mezzo secolo.