Astolfo e il testamento solidale

Il canto XXXIV dell’Orlando Furioso ci racconta come Astolfo si rechi sulla luna per recuperare il senno di Orlando.

Guidato dall’evangelista Giovanni, si trova in una specie di deposito degli oggetti smarriti che raccoglie oltre a beni materiali anche attitudini, inclinazioni, valori, attinenti alla morale, tutti, comunque male utilizzati.

Un luogo in cui viene conservato tutto ciò che in terra, più o meno colpevolmente, si perde (“ove mirabilmente era ridutto ciò che si perde o per nostro diffetto o per colpa di tempo o di Fortuna“).

Tra le altre cose Astolfo “di versate minestre una gran massa vede” e chiede chiarimenti alla sua guida che gli spiega che si tratta dell’elemosina “che si lassa alcun, che fatta sia dopo la morte“.
In pratica quello che oggi chiamiamo testamento solidale.

E l’Ariosto mostra di non avere una buona considerazione di questa pratica.
Già il termine “minestre” usato fuori dall’ambito culinario acquisisce un valore dispregiativo.
Per di più si tratta di minestre “versate“, e nel contesto del brano ariostesco il participio non può che avere il significato di “gettate via” perché non gradite.

Ma che cosa c’è di male nel testamento solidale?
Nulla dal punto di vista dei destinatari; si tratta di opera meritoria ed, infatti, viene sollecitata con modalità quasi pubblicitarie.
Ma dal punto di vista del disponente si tratta di una iniziativa tiepida in quanto rinvia l’atto di generosità al momento in cui il suo oggetto non gli appartiene più.
Si tratta di una generosità per interposta persona, priva di quella vera Carità, che “non cerca il proprio interesse“, secondo l’insegnamento Paolino di 1ª Corinzi 13.5, senza la quale “Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli” sarei “come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna” (ivi 13.1).