Approssimandosi le prove scritte del concorso notarile ed in memoria del collega Gianfranco Re, recentemente scomparso, pubblichiamo alcune sue profonde ed appassionate considerazioni sul tema.
Queste considerazioni provengono da http://foro.romoloromani.it/topic/51254-gianfranco-re-uno-che-di-notariato-se-ne-intende-tempo-di-tracce/#comment-443200 ove sono comparse il giorno 8 febbraio 2012.
L’autore di queste considerazioni è stato notaio in Moncalieri dal 21 giugno 1967, data della sua nomina a notaio, fino al 3 agosto 2011, giorno del suo collocamento a riposo, per limiti di età.
Ha fatto parte del Consiglio Notarile dei distretti riuniti di Torino e Pinerolo in qualità di consigliere dal novembre 1971 al febbraio 1979 e di nuovo dal febbraio 1985 al febbraio 2009; durante quest’ultimo periodo a partire dal marzo 1987, ha ricoperto la carica di Presidente di quel Consiglio.
Durante la sua vita professionale ed anche dopo si è occupato con competenza, acume e spirito critico di problemi del notariato.
Ed ecco le sue considerazioni.
Nell’imminenza delle ultime prove scritte del concorso notarile avevo steso alcune note. I messaggi allora ricevuti da diversi colleghi e da molti candidati, secondo i quali quelle note hanno influenzato in senso positivo la formulazione delle tracce e lo svolgimento delle stesse prove, mi induce a reinviarle. Sono i problemi di sempre.
Innanzitutto, i tempi di svolgimento delle prove. La preparazione è soltanto uno dei fattori del successo. L’altro è la tenuta fisica. Dilatare oltre misura i tempi di permanenza dei candidati nel palazzo significa attuare una discriminazione di taluni di essi, cioè dei meno attrezzati fisicamente e psichicamente, rispetto agli altri, perché la prova d’esame è in un certo senso anche una prova sportiva. Quindi, niente dettature nel primo pomeriggio, niente consegne a notte inoltrata.
Poi, e fondamentalmente, le tracce. Non posso non sottolinearne la frequente alienità ed incongruenza rispetto alla casistica ed alla pratica professionale.
Da quando è invalso il professionismo (ed il business) della preparazione all’accesso al notariato, si è innescata una sempre più accentuata divaricazione tra le fattispecie proposte dal concorso e quelle proposte dall’esercizio quotidiano. Si offrono al travaglio dei candidati situazioni astruse, improbabili, farcite di dati di arduo riordino mentale, non sempre rilevanti, complicate da capricci di testatori di dubbia lucidità, formulate con subordinate a scatole cinesi. Tutto questo non ha nulla a che vedere con l’esercizio del notariato sul campo, e non prepara all’esercizio del notariato sul campo (scarso peso della componente notarile nell’ambito della commissione?). Si è innescata, tra scuole professionistiche (quasi “scuderie”) e commissioni d’esame (anche perché spesso delle seconde fanno parte docenti delle prime), una sorta di competizione alla ricerca di fattispecie peregrine, quasi lo scopo del concorso fosse di dimostrare quanto son bravi i commissari e non di appurare il livello di preparazione dei candidati. In certe scuole si rischia di allenare i giovani ad affrontare stipulazioni che ai più non capiteranno mai; lasciandoli digiuni dell’insegnamento più importante, che è quello di impadronirsi del modo di elaborare il “progetto dell’atto”, cioè di uno schema logico e rigoroso da applicarsi alle varie stipulazioni. Si mandino gli allievi (e i candidati) a pescare nella corrente principale del fiume, a cercar di prendere pesci normali e non per questo più facili da catturare, anziché nei rivoli collaterali, dove allignano pesci strani, buoni soltanto per pescatori speciali (intendo, casualmente – o forse, andreottianamente, ragionando, neanche tanto casualmente – informati della soluzione).
Occorre abbandonare le prove a soluzione obbligata, che, assomigliando ad un quiz, fanno entrare in gioco elementi di casualità, per tornare a proporre soluzioni aperte e consentire un ventaglio di soluzioni, tutte accettabili se ragionevoli e ragionevolmente giustificate. Occorre stabilire una sorta di codice di comportamento relativo alle modalità di stesura delle tracce, che devono rispondere a precisi requisiti: chiarezza, linearità e sinteticità, non solo nella materiale formulazione, bensì anche nel senso di porre un numero sensato di problemi.
Poi, complessità sì, ma ragionevole: l’eccessiva difficoltà è priva di selettività al pari dell’eccessiva semplicità. Se si vuol sottoporre ad un test di selezione atleti del salto in alto, non si dovrà porre l’asticella ad un metro, ma neppure a tre metri. Quella misura la fan tutti, questa nessuno, ed il risultato di ottenere la selezione delle capacità è vanificato in entrambi i casi. Sono state in passato assegnate tracce di fronte alle quali notai colti e di lunga esperienza, non nuovi ad alcun tipo di problemi, si sentivano impari: problemi accavallantisi, sovrapponentesi, incastrantisi l’uno nell’altro; periodare macchinoso, involuto, per subordinate delle subordinate. Ed un candidato, in difficili condizioni ambientali e di spirito, dovrebbe venirne a capo in otto ore? Non può sortirne che un risultato infedele rispetto alla preparazione, fanno premio il meno peggio e la casualità, può risultarne privilegiato chi – impossibilitato in ogni caso ad approfondire i troppi temi – li affronta in modo pedestre, poco più che parafrasando la traccia (tornando all’asticella di tre metri, poiché nessuno la supera e si deve comunque giudicare, si promuove chi vi passa sotto con la minor goffaggine).
Si tenga poi presente che problemi ardui oltre misura possono rappresentare un handicap e rivelarsi un boomerang per gli stessi commissari, cui nel corso della correzione può accadere di intravedere aspetti prima non considerati o scoprire ipotesi di soluzione impreviste, con imbarazzo e con messa in discussione del metro fin lì adottato, vittime essi stessi – i commissari – dell’intasamento cerebrale che hanno imposto ai candidati.
La mitizzazione delle prove di concorso, alla ricerca del più difficile, del più peregrino, del più snob, ha fatto guardare con sufficienza, se non con sdegno, agli elementari principi di buon senso e banale praticità. Innanzitutto (sarà una regola grossolana, ma – credetemi – è valida) la traccia che supera di troppo le venticinque-trenta righe non è una buona traccia, una pagina ben utilizzata basta e avanza per mettere alla prova la cultura giuridica di un candidato. Poi un periodare semplice e breve, un problema per volta (ricordiamo che i grandi maestri del diritto, Einaudi, Antolisei, Torrente, ecc., lo erano prima di tutto nella semplicità e nella chiarezza dell’esposizione; il buon uso della lingua serve – ma spesso latita – anche a chi formula i temi del concorso). Poi, univocità: nel senso che il tema deve proporre solo i problemi che vuol proporre, che il proponente si è ben rappresentato ed ha vagliato, e non farne sorgere di non voluti e non presi in considerazione dalla stessa commissione. Ancora, essenzialità: non devono essere introdotti dati puramente ad colorandum, perché quella che non è una tessera essenziale del puzzle è solo un elemento disturbatore e fuorviante, e non è corretto infliggere una simile penalizzazione a chi ha già i minuti contati. Quindi, non labirinti per malcapitati, ma temi di notai per notai. Regolette così elementari che è persino imbarazzante doverle rinfrescare.
Inoltre, non abbandonare la strada maestra del diritto per inseguire istituti bizzarri o peregrini (peggio che mai se di marca straniera), ovvero casistiche capillari in cui solo la casualità può aver fatto imbattere il candidato (si pensi che fino ad una certa epoca si evitarono gli argomenti societari perché poco familiari ai praticanti di notai rurali!). Ciò in omaggio ai principi di generalità e par condicio, nel senso che i problemi devono poter essere affrontati, ovviamente al livello di preparazione di ciascuno, da tutti i candidati preparati, e non scavare nelle pieghe di casistiche peregrine (tali anche da far sorgere il sospetto di preventive soffiate).
E non esageriamo con la giurisprudenza: in ultima analisi, la giurisprudenza non è poi tutto il diritto, non è neppure fonte di diritto (art. 1 preleggi). In concorsi recenti la sua rilevanza, che precedentemente era giustamente calibrata, è andata via via assumendo un peso prevaricatore dell’importanza della dottrina. Vi sono tracce per affrontare le quali non serve il codice, o forse serve un codice ombra, quello delle sentenze. Il che è da un lato iniquo, perché, fuor della giurisprudenza di primaria importanza e di massimo livello, la conoscenza di una determinata decisione può essere dovuta a pura casualità; mentre d’altro lato può essere diseducativo, perché non si dimentichi che il giudice si pronuncia su di un caso concreto, che può aver dato luogo a quella sentenza proprio per le peculiarità contingenti della fattispecie.
E, infine, bando alle preclusioni: nessun errore, per quanto grave, di per sé e da solo può essere causa di esclusione, ma va valutato nel contesto (notai bravi, esperti e diligenti non sono esenti da nullità formali, lo si vede assai spesso nelle ispezioni biennali).
E, la parte teorica, su temi prestabiliti, non ad libitum.
La saggezza della commissione nella formulazione delle tracce è la chiave di volta di un buon concorso. Serve il buon senso più che la genialità: una testa d’uovo può fare, in commissione, danno non minore che uno sprovveduto.
Sul piano dell’equità, poi, si potrà porre allo studio un sistema di rivisitazione (io non sono affatto sicuro che sia incompatibile con la normativa attuale) delle correzioni già effettuate per adeguarle alle variazioni che il metro di giudizio avesse subito nel corso dei lavori (si impara correggendo), o anche per la copertura integrale dei posti assegnati.
Sotto il primo aspetto, non è vero che l’esercizio di una sorta di ius poenitendi sia immorale, anzi è morale e doveroso quando la commissione, cammin facendo, cambia (come può accadere, e come deve fare se ne è in coscienza persuasa) la propria valutazione circa la validità o meno delle soluzioni adottate, restandone inevitabilmente influenzata nel prosieguo; o quando ad un certo punto si avvede che la percentuale degli ammessi è troppo bassa rispetto al rapporto generale, il che non può non riflettersi in un allargamento delle maglie nella fase successiva. E’ ovvio che anche la possibilità di rivisitazione poggia – come tutto il resto – sull’incontrollabile presupposto della correttezza e della buona fede della commissione, che devono essere fuori discussione e nelle quali tutti dobbiamo fermamente credere e crediamo.
Sotto il secondo aspetto, come è sbagliata l’estensione del numero dei posti messi a disposizione dei notai di prima nomina effettuata in passato, così è un errore – e grave, anche in termini politici – non esaurirlo. Per legge dei grandi numeri, non è pensabile che la compagine (migliaia di candidati) che si presenta ad un concorso sia sostanzialmente diversa per preparazione media rispetto a quella che si presenta ad un altro: onde la forte escursione tra un risultato e l’altro dei diversi concorsi non può trovare spiegazione che nella qualità dei temi o nel metro di valutazione.
Ma una mano ce la devono dare anche i ragazzi, dismettendo l’intolleranza ai verdetti, che riflette lo spirito dei tempi: voglia di arrivare a tutti i costi, sospetto di principio e generalizzato di favoritismi e di ingiustizie, presunzione, mito della “garanzia” di successo assicurata dalla provenienza da determinate scuole (purtroppo il business è entrato a contaminare, come tutti gli altri, anche questo ambiente). La conflittualità va indifferibilmente e radicalmente ridotta regolamentando in modo rigido il contenzioso, al momento mina vagante di un sistema già di per sé labile e predisposto all’esplosività.
Forse, applicando gli elementari principi sopra enunciati, cui si ispiravano i concorsi di una volta, che non erano quella tragedia che sembra siano diventati gli attuali, si potrà rasserenare l’ambiente e le prove scritte si potranno svolgere in un’atmosfera più distesa, non inquinata da tensioni e da esasperata competitività.
(Le evidenziazioni in grassetto sono opera della redazione – n.d.r.)